Ho trovato, in fondo all’armadio, un cioccolatino industriale.
Appartiene alla mia vecchia vita, ora mangio solo cioccolato prodotto da piante italiane registrate all’anagrafe e stagionato per anni nelle culle delle cliniche pediatriche, in Svizzera.
Cosa devo farne?
Quale potrebbe essere la cosa migliore da fare?
Divorarlo e annegare nei sensi di colpa oppure raccoglierlo e riporlo tra i rifiuti non riciclabili, chiamare quelli che ritirano i rifiuti pericolosi, in modo che la sua materia organica temibile non contamini l’humus del mio orto?
Un’altra possibilità è quella che poi è la nostra missione, quella che spetta a noi, guerrieri della luce, nati in questa epoca post-industriale: buttare il cioccolatino chimico nella pattumiera lanciandogli contro mille maledizioni.
Mi avvicino quindi allo scaffale dell’armadio e allungo la mano verso il disgraziato fagottino avvolto nel malefico cellophane colorato.
Più mi avvicino e più salivo come un mastino napoletano di undici anni.
Cerco di darmi un tono.
Cerco di nascondere al mio ideale, la bocca piena di bava e lo stomaco che urla desideri immondi.
Piglio il cioccolatino, spingo col piede sul pedale del secchione e mi scaravento nella trachea il demoniaco, squisitissimo snack.
Non respiro per qualche minuto, ho un Nirvana.
Poi torno in me, mi sistemo, mi lavo i denti, esco di casa guardinga, controllo che nessuno mi abbia vista e scivolo fuori dal pianerottolo verso il mercato contadino.